Attaccamento disorganizzato e tecniche sensomotorie
di Lucia Tombolini* e Cecilia La Rosa **
Psicobiettivo, 2013, vol 33, 3, 149-163.
Riassunto. Il trattamento dei disturbi correlati ai traumi richiede una particolare attenzione sia alla relazione terapeutica sia alle modalità di intervento sui ricordi traumatici. Nella relazione terapeutica avranno un ruolo l’intensità delle emozioni e la capacità del paziente di regolarle; per quanto riguarda le tecniche di intervento sul trauma e la loro integrazione con la psicoterapia sono necessari alcuni accorgimenti: il loro utilizzo e’ possibile in una fase avanzata del trattamento, tenendo presente la capacità meta cognitiva del paziente. Dopo una breve esposizione dei principi teorici della Psicoterapia Sensomotoria, saranno descritte alcune procedure basate sul corpo utilizzabili in un contesto terapeutico cognitivo-evoluzionista.
Parole chiave: trauma, attaccamento disorganizzato, psicoterapia sensomotoria, sistema di difesa, relazione terapeutica.
In questo lavoro descriveremo l’utilizzo di alcune tecniche tratte dalla Psicoterapia Sensomotoria, in contesti clinici legati all’attaccamento disorganizzato e agli sviluppi traumatici.
Rimandando al volume di Liotti e Farina (2011) per una completa trattazione sulla definizione, sulle conseguenze evolutive e sulle manifestazioni cliniche del trauma psicologico, ricordiamo come prototipico del contesto clinico a cui faremo riferimento il disturbo post-traumatico complesso (Herman, 1992), quadro che nella sua descrizione contiene le molteplici conseguenze del trauma prolungato sullo sviluppo dell’individuo: l’evento patogeno in questo caso è di natura interpersonale, ripetuto nel tempo e in situazioni da cui non è possibile sottrarsi, come avviene nei contesti familiari abusanti. Le conseguenze vanno da alterazioni nella regolazione degli affetti e della coscienza, a un senso di identità negativo; da alterazioni nella costruzione dei rapporti interpersonali, compresa una relazione peculiare con il persecutore, nella quale trova spazio anche l’identificazione con i suoi aspetti negativi, alla difficoltà nella definizione dei valori e del senso dell’esistenza. Infine sul piano fisico è causa di sintomi somatici sovrapponibili a quelli del disturbo post-traumatico vero e proprio, cioè da iper-attivazione e da ottundimento, con disturbi del sonno, dell’alimentazione, e dolori senza una causa fisica.
La paura e l’ostilità che hanno caratterizzato le storie di attaccamento di questi pazienti permeano la relazione terapeutica e la rendono molto impegnativa per il clinico: inevitabilmente il terapeuta dovrà fronteggiare forti emozioni con pressioni ad agire, soprattutto in momenti in cui si verifica una caduta della capacità di collaborare da parte del paziente. Sia essa legata a comportamenti aggressivi verso se stessi o verso il terapeuta, o a interruzioni improvvise della terapia, o ad attacchi e squalifiche nei confronti del trattamento, la paura nella relazione sarà comunque presente e graverà nella stanza della terapia come se, per usare l’efficace immagine di Lister (1982), insieme con il paziente e il terapeuta fosse minacciosamente presente una terza persona, il persecutore.
Oltre a un intenso bisogno di relazione e a una altrettanto intensa difficoltà a fidarsi dell’altro, il paziente, che ha costruito un’identità negativa nel rapporto con un caregiver i cui comportamenti sono stati temibili e al tempo stesso abdicanti dal punto di vista delle cure e del conforto ( Solomon e George, 2011), avrà quella che è stata chiamata sfiducia di base: non sarà consapevole del valore del suo mondo emotivo, stenterà a riconoscerne il significato, vivrà anche le sensazioni fisiche come estranee o come sintomi di patologie somatiche, potrà sentire il proprio corpo nemico e fuori del suo controllo. Infine la sua capacità metacognitiva sarà soggetta a fluttuazioni legate agli stati mentali, con momenti in cui sarà difficile lavorare su un livello rappresentativo e sulla costruzione di ipotesi qualitativamente buone del funzionamento della mente propria e dell’altro (Fonagy et al., 2002). Il problema diventa allora quello di uscire da un clima emotivamente impegnativo, poco proficuo per l’elaborazione dei contenuti narrativi, per trovare il modo di alleviare la sofferenza quando le parole sembrano aver perso la loro efficacia, riacquistando l’attenzione e la collaborazione del paziente nonostante aleggi la presenza del terzo persecutorio, l’aspetto spaventoso e indicibile del trauma.
Per comprendere il tema della paura e della disorganizzazione che sono alla base di queste difficoltà è opportuno ricordare brevemente il ruolo giocato dal sistema di difesa, il sistema motivazionale di tipo rettiliano -arcaico e appartenente al funzionamento fisiologico non interpersonale- fornito dall’evoluzione per cercare scampo in situazioni minacciose per la vita e per l’incolumità. Nei mammiferi e nell’uomo, il sistema di difesa comporta la lotta o la fuga, il freezing (immobilità ipertonica con conservata padronanza sulla motilità) e l’immobilità ipotonica, con perdita del controllo sulla motilità. Le difese dell’attacco e della fuga attivano il corpo, mentre il freezing e l’immobilità lo rendono non reattivo e passivo, e danno luogo a quella che viene definita “morte apparente o sottomissione totale”, cioè uno stato di totale distacco e di non responsività agli stimoli. Il sistema di difesa è finalizzato a fronteggiare l’attacco di un predatore di un’altra specie, non di un conspecifico: nell’interazione con un predatore l’aggressività non è ritualizzata come nel sistema di rango, che si arresta se il contendente che perde mostra segnali di sottomissione e non ne comporta l’uccisione, ma è un’aggressività predatoria, che mira alla distruzione dell’altro (Liotti e Farina, 2011).
Una delle prime storiche osservazioni sull’attivazione del sistema di difesa nella relazione con il caregiver è stata condotta da Fraiberg (1982) su coppie madre-figlio ad alto rischio, all’interno di uno studio clinico per il trattamento di bambini con segni precoci di difficoltà relazionali. L’autrice descrive dettagliatamente nel comportamento di bambini di pochi mesi di vita, inseriti nella sua ricerca per esperienze di grave trascuratezza o abuso, l’alternanza di freezing a comportamenti ascrivibili alla lotta, quasi per difendersi da un predatore: ad esempio una bambina di 5 mesi in presenza della madre viene vista dagli sperimentatori restare immobile per venti lunghissimi minuti, per poi risvegliarsi e cominciare a colpirla improvvisamente; o, in un’altra osservazione, un bambino spaventato da un rumore improvviso invece di cercare conforto esprime ostilità verso la madre picchiandola. Queste madri, oltre ad essere trascuranti, mettevano in atto comportamenti bizzarri o spaventosi, come nel caso di una giovane donna che con un giocattolo dava dei colpetti al figlio, prima piano, ridendo, per gioco, per aumentare progressivamente la forza dei colpi sulla testa del bambino, terrorizzandolo e facendogli male.
Nelle donne di questo campione, le azioni imprevedibili e violente verso i figli possono essere lette come messe in atto di reminiscenze che guidano il comportamento alla stregua di flashback post-traumatici. Le emozioni del caregiver hostile/helpless (Lyons-Ruth et al, 2003), cioè paura e impotenza, o collera e ostilità, sono legate all’attivarsi nell’adulto del proprio sistema di attaccamento e contemporaneamente del sistema di difesa. Nella tipica situazione disorganizzante, il bambino cerca la vicinanza alla figura di attaccamento perché si sente in pericolo o vulnerabile, ma se il genitore stesso lo spaventa invece di proteggerlo e confortarlo, il bambino vive la “paura senza soluzione” (Main e Hesse,1990): non può avvicinarsi ed essere confortato, né può allontanarsi e orientare nuovamente comportamento e attenzione. L’attivazione dell’attaccamento lo spinge alla prossimità con il genitore, mentre l’attivazione del sistema di difesa comporta l’attacco, la fuga o l’immobilità.
Come è noto dalle ricerche sull’attaccamento (Hesse e Main, 2006; Lyons-Ruth et al. 2005; Main e Hesse, 1990),oltre a essere frightening (spaventante) nei confronti del bambino attraverso atteggiamenti ostili e aggressivi, derivanti da esperienze traumatiche non elaborate, il caregiver può essere frightened (spaventato e impotente), quando esprime la paura suscitata in lui da memorie dolorose, o quando perde il contatto con il bambino e con la realtà perché assorbito in questi ricordi. La paura e l’ostilità del genitore attivano a loro volta il sistema di difesa del bambino che si sentirà come di fronte a un predatore (Liotti e Farina, 2011): il suo sistema di difesa lo spingerà alla fuga dal caregiver che sente minaccioso, o direttamente quando è ostile e violento, o indirettamente, quando è spaventato o disorientato (Attili, 2007), mentre l’attaccamento lo indurrà a cercarne la vicinanza e il conforto. In questo modo si verificano la perdita della coerenza del comportamento e il crollo dell’attenzione del bambino.
La relazione terapeutica
Nella disorganizzazione, la “paura senza soluzione”, che ostacola il normale lavoro di sintesi della coscienza, impedisce lo strutturarsi di MOI organizzati, come invece accade negli altri pattern di attaccamento: Liotti (2001) ipotizza che l’attivazione del MOI disorganizzato sia accompagnata dall’esperienza di uno stato mentale doloroso, di annichilimento e di dissoluzione del senso di sé. Come difesa da questa insopportabile sensazione di instabilità e impotenza, l’attaccamento verrebbe inibito e al suo posto sarebbe attivato un altro sistema motivazionale. Il passaggio sarebbe facilitato dalla somiglianza che hanno tra di loro le emozioni tipiche dei vari sistemi motivazionali, con la possibilità che la collera da protesta nell’attaccamento diventi quindi la collera della sfida agonistica, o che la tenerezza dell’accudimento possa confondersi con la sicurezza provata per la vicinanza protettiva della figura di attaccamento.
A causa dell’attivarsi oltre al sistema di difesa anche dell’accudimento e del sistema agonistico, il sé e l’altro si troverebbero a interagire all’interno di copioni interpersonali costituiti da una conoscenza tacita, preverbale, senso-motoria, in cui si alternano impotenza, aspettative salvifiche e comportamenti accudenti, controllo aggressivo e tentativi di dominio.
Le osservazioni longitudinali hanno messo in luce nel corso dello sviluppo la presenza di quelle che sono state definite strategie controllanti, visibili nella maggior parte dei bambini disorganizzati a partire dai 5-6 anni ( Henninghausen e Lyons-Ruth, 2005; Hesse et al. 2003; Lyons-Ruth e Jacobvitz, 2008). Chiamate controllanti punitive e controllanti accudenti a seconda dell’utilizzo del sistema di rango o dell’accudimento per dirigere l’attenzione e il comportamento del genitore, hanno il vantaggio di evitare l’esperienza della disorganizzazione, nel bambino e poi nell’adulto, impedendo l’accesso alla coscienza del MOI disorganizzato, a meno che non si verifichino eventi che attivano durevolmente il sistema di attaccamento.
L’ipotesi di Liotti e Farina (2011) è che la strategia controllante permetta all’individuo di evitare l’attivazione dell’attaccamento attraverso il già citato utilizzo di sistemi motivazionali vicari. Un individuo con attaccamento disorganizzato cioè cercherà conforto accudendo, o in momenti di vulnerabilità si avvicinerà all’altro significativo con un atteggiamento di dominio e di squalifica. Se però accadono eventi che attivano stabilmente l’attaccamento, la strategia controllante perderà la sua efficacia di freno sull’attaccamento, e questo comporterà per il paziente il rivivere l’esperienza della disorganizzazione e la possibile comparsa di sintomi dissociativi. Nel corso di una psicoterapia avremo quindi la possibilità di vedere in atto sia le strategie controllanti che daranno forma alla relazione secondo modalità caratteristiche, sia -nei momenti in cui un evento attiva durevolmente l’attaccamento- gli effetti dell’attaccamento disorganizzato e la conseguente attivazione del sistema di difesa.
Il terapeuta si potrà dunque trovare coinvolto in configurazioni interpersonali caratterizzate da strategie guidate dal sistema di rango (nella forma dominante o sottomessa), dal sistema di accudimento, o da quello sessuale. Un paziente che utilizza il controllo attraverso il rango nella forma della sottomissione è un paziente compiacente, idealizzante, che gratifica il terapeuta attraverso complimenti o regali. Sembra aderire volentieri alle richieste del terapeuta nel caso di compiti a casa e di esperimenti di cambiamento, ma in realtà il terapeuta ha la sensazione di sentirsi bloccato in una situazione non autentica e di apparente collaborazione. Nel caso della strategia che utilizza il rango nella forma dominante punitiva, il clinico sarà fatto oggetto di attacchi e critiche fino a diventare agli occhi del paziente il peggior terapeuta mai avuto, e la terapia sarà considerata dannosa o un’inutile perdita di tempo e di soldi. La strategia accudente invece è riconoscibile nei tentativi di prendersi cura del terapeuta, con interessamento e domande sulla sua salute, quasi nel timore di danneggiarlo con il proprio disagio, e nell’offerta di favori e di consigli su temi che non concernono la relazione terapeutica. Più difficile la relazione caratterizzata dall’utilizzo del sistema sessuale: in pazienti con storie di abuso sessuale è molto frequente la riproposizione della sessualità come modo privilegiato per avere valore agli occhi del terapeuta e per farsi accettare. Si potranno verificare comportamenti seduttivi ed erotizzati da parte del paziente, ma ben presto gli aspetti di innamoramento saranno eclissati dalla componente di controllo e di potere, con la conseguenza che il terapeuta si sentirà sopraffatto e perseguitato dalle manifestazioni del cosiddetto “innamoramento”.
Nel caso in cui crolli la difesa della strategia controllante, come dicevamo, il paziente può esperire la frantumazione e la disorganizzazione dell’attaccamento, con il presentarsi di sintomi dell’area dissociativa, siano essi alterazioni della coscienza siano sintomi somatici.
Può essere interessante rileggere da questo punto di vista il caso descritto dagli psicoanalisti Person e Klar (1995). Vittima di un padre violento, controllante e autoritario, dopo il doloroso episodio di uno stupro subito quando frequentava il college, la paziente conduce una vita caratterizzata dal controllo emotivo. In questo mondo interpersonale algido e sessualizzato allo stesso tempo, in un momento in cui la relazione con l’analista si sta intensificando, la paziente ricorda improvvisamente, con grande intensità emotiva, e dopo aver a lungo negato la possibile esistenza di un fatto del genere, un episodio di abuso sessuale da parte del padre. La presa di coscienza però non sarà legata a un miglioramento, ma aprirà la strada al ricordo somatico: prima delle sedute la paziente continuerà a provare una fastidiosa sensazione di nausea, come le era successo al momento della violenza, che si ripresenterà anche in momenti importanti della relazione terapeutica, per esempio in prossimità delle interruzioni. Nella chiave di lettura che stiamo proponendo, la caduta della strategia controllante dà luogo all’attivazione dell’attaccamento anche nella relazione terapeutica, con il riemergere di un sintomo, la nausea, legato, come vedremo dopo, all’iperattività del Sistema Nervoso Autonomo nella componente ortosimpatica del sistema di difesa. Questo caso illustra molto bene come la narrazione del ricordo possa non avere un effetto risolutivo: le parole perdono la loro efficacia nei momenti in cui il paziente vive la perdita del senso di sé (per l’attaccamento disorganizzato) e si sente pronto a reagire o paralizzato come se l’evento traumatico fosse attuale, e diventa pertanto inutile il ricorso a interventi espliciti di spiegazione dei comportamenti. Nel caso descritto, per esempio, non sarebbe efficace proporre una lettura della nausea -causata dall’attivarsi dell’attaccamento nella relazione terapeutica- soltanto come uno sperimentare qualcosa provato nel passato e non adeguato alla situazione presente, perché come vedremo meglio in seguito, la sensazione di minaccia che si accompagna al ricordo traumatico viene percepita imminente, nonostante il paziente la riconosca non adeguata al contesto attuale. Essendo una delle conseguenze della disorganizzazione proprio la caduta delle capacità metacognitive del paziente, cioè la possibilità di riflettere sui contenuti mentali come rappresentazioni e non come la realtà, è impossibile proporre significati su un livello di astrazione in quel momento inaccessibile. L’attenzione sul corpo, come vedremo, può essere uno strumento efficace nella regolazione emotiva in questi contesti e nel promuovere metacognizione e collaborazione nella diade terapeutica.
Questa selettiva, breve e non esaustiva esposizione di alcuni aspetti della Psicoterapia Sensomotoria (Ogden e Minton, 2000; Ogden, Minton e Pain, 2006), che prevede un training specifico, non può ovviamente sostituire la lettura dei testi degli ideatori del modello, a cui rimandiamo.
Già nella sua definizione, la Psicoterapia Sensomotoria (PS) sottolinea il duplice aspetto di essere basata sul colloquio e di essere orientata al corpo, ricorrendo all’esperienza somatica come punto di accesso privilegiato per l’elaborazione del trauma. Le tecniche della PS orientate al corpo sono ispirate principalmente al metodo Hakomi della psicoterapia somatica (Kurtz, 1990) ma si avvalgono anche di pratiche tratte da altre discipline fisiche, come ad esempio lo yoga o la danza. Non sono quindi un patrimonio esclusivo di questo modello, così come non è nuovo l’uso che la PS fa della mindfulness. L’ impianto teorico si basa su quello di Janet, con riferimenti a Nijenheus, Steele e van der Hart ( Fisher e Ogden, 2009).
Nella PS il corpo è la sede del ricordo traumatico: seguendo l’ipotesi di Herman (1992), il sistema di difesa del paziente, sopraffatto e disorganizzato dall’impossibilità di difendersi o di scappare nella prolungata situazione traumatica, rimane attivo anche in situazioni non pericolose, e ricorda il trauma attraverso il ripetersi dell’esperienza senso motoria vissuta nei contesti pericolosi. Si tratta quindi di un apprendimento procedurale, che può ripresentarsi come una risposta di falso allarme in quello che è chiamato dirottamento bottom-up: l’organismo cioè risponde a una minaccia senza che ci sia consapevolezza dell’assenza di un reale pericolo, proprio perché le strutture corticali non hanno influenza su quelle sottocorticali come l’amigdala, e non permette cioè un effetto di regolazione top-down.
Il sistema di difesa si riattiva quando stimoli ambientali rievocano il trauma: gli adulti che hanno subito un incesto nell’infanzia possono immobilizzarsi invece di rifiutare una proposta sessuale non gradita; chi ha subìto maltrattamenti fisici può reagire con un’aggressione incontrollata in situazioni che in quel momento vengono percepite come minacciose. Anche se riconoscono di esagerare nelle risposte, questi soggetti sono incapaci di modulare il loro comportamento, dal momento che il sistema di difesa innesca una risposta stereotipata e generalizzata anche di fronte a uno stimolo banale e quotidiano (Ogden, Minton & Pain, 2006).
Nella pratica clinica, poichè il corpo è utilizzato come fonte di informazione e come luogo privilegiato dell’intervento, si chiede al paziente di osservare e descrivere lo svolgersi delle sensazioni fisiche, delle emozioni, dei pensieri e delle disposizioni al movimento nel preciso momento in cui si svolge il dialogo terapeutico. A sua volta il terapeuta legge che cosa sta succedendo somaticamente alla persona di fronte a lui (body reading): ne valuta la quantità di energia, la motilità degli arti, la presenza di movimenti quando si affrontano particolari temi. Fin dalle prime sedute gli interventi sono di sottolineatura di quanto notato, con commenti lasciati aperti per permettere al paziente di dissentire. Non ci sono interpretazioni, ma ipotesi, introdotte da formule educate e interrogative: “sembra che ci sia una certa tensione nelle Sue spalle”, “è come se le Sue braccia si siano irrigidite”. L’attenzione del terapeuta orienta quella del paziente, che sarà quindi preparato progressivamente a notare e a condividere anche gli aspetti più squisitamente somatici della sua esperienza. La lettura del corpo è in realtà strettamente finalizzata: attraverso quello che viene chiamato tracking, si cercano da un lato le risorse del paziente, quelle cioè che l’hanno aiutato a sopravvivere al trauma, e dall’altro gli indicatori somatici del sistema di difesa.
Terapeuta e paziente devono pertanto essere disposti a mettere da parte il racconto, i contenuti mentali e le emozioni per concentrarsi sull’esperienza fisica; attraverso l’attenzione congiunta diretta esclusivamente alle sensazioni fisiche nel loro dinamismo, si ottiene quello che è uno dei punti centrali dell’ approccio, cioè la regolazione dell’arousal. Poiché gli eventi traumatici comportano una alterazione della regolazione fisiologica, è necessario che il paziente acceda alle esperienze dolorose soltanto se è in grado di auto-regolare il suo livello di arousal, mantenendosi in quella che viene chiamata la finestra di tolleranza.
Per spiegare il comportamento nelle situazioni traumatiche, la PS utilizza la teoria della Gerarchia Polivagale di Porges (2001) che collega le difese di immobilizzazione al funzionamento del ramo dorsale del nervo vago, quelle di mobilitazione al Sistema Nervoso Autonomo con il conseguente aumento del metabolismo e della frequenza cardiaca necessari per le risposte di attacco/fuga, mentre la comunicazione e il coinvolgimento sociale sarebbero mediati dal ramo ventrale del vago, che coordinerebbe l’espressione facciale e la vocalizzazione e favorirebbe lo stato di calma.
Nella fascia centrale della finestra di tolleranza ci sarebbe quindi la possibilità di stare in relazione e di regolare l’intensità emotiva nel rapporto interpersonale; nella fascia superiore, fuori dalla finestra di tolleranza, si verificherebbe l’iperattivazione delle risposte di attacco e fuga; al di sotto della finestra di tolleranza ci saranno le difese di immobilizzazione, con catatonia, morte simulata, sottomissione.
Il paziente con un disturbo post-traumatico ha una scarsa capacità di autoregolazione e una finestra di tolleranza troppo stretta e anche in seduta il riattivarsi del ricordo traumatico può esitare in atteggiamenti da iper-arousal del tipo attacco e fuga, o da ipo-arousal con immobilità e ottundimento. Per questo il terapeuta, fin dalle prime fasi del trattamento, concorda con il paziente l’insegnamento di tecniche di autoregolazione dell’arousal e l’utilizzo in caso di necessità.
Come dicevamo, la lettura del corpo cerca di percepire gli indicatori del sistema di difesa. Nel corso di una seduta può accadere ad esempio di cogliere nel paziente l’attivazione di difese di immobilizzazione dallo sguardo perso nel vuoto, da un afflosciamento delle spalle e da una perdita di fluidità del racconto. In questo caso l’uscita dalla situazione prevede il ripristino dell’arousal all’interno della finestra di tolleranza, utilizzando le modalità concordate in precedenza atte a ristabilire un livello energetico ottimale, con conseguente ripresa del contatto visivo e dello scambio verbale con il terapeuta. Il sistema di difesa viene studiato nella PS anche in termini di sequenze motorie non completate: seguendo l’ipotesi di Janet che il trauma si supera quando la difesa è portata a termine con quello che l’autore definisce l’atto di trionfo (Janet, 1925), paziente e terapeuta lavorano per aiutare il corpo a terminare la difesa bloccata. Attraverso l’attenzione non giudicante portata sulle sensazioni fisiche e cogliendo il suggerimento che lo stesso organismo dà in termini di sequenza motoria, il movimento che doveva essere eseguito nel corso dell’evento viene completato: il paziente potrà spingere una parete o la mano del terapeuta se il movimento riguardava la lotta, o camminare e muoversi liberamente nello studio se il movimento aveva a che fare con la fuga. La procedura prevede che all’inizio il paziente osservi anche i più piccoli movimenti spontanei, preparatori ad azioni più evidenti, per esempio la mano che si stringe, o la gamba che si muove, e che in seguito deliberatamente e soffermando l’attenzione sulla qualità delle percezioni concluda l’esecuzione fisica del movimento fino a raggiungere un completo senso di padronanza.
Anche nella PS, come negli altri modelli di intervento sui disturbi legati ai traumi (Courtois, Ford e Cloitre, 2009), la terapia è strutturata seguendo una successione di fasi che vanno dalla costruzione della relazione terapeutica con stabilizzazione dei sintomi, alla fase di integrazione delle memorie traumatiche, seguita da una fase cosiddetta di stabilizzazione. Nella prima fase si collocano gli interventi di psicoeducazione e di lavoro sulle risorse: il paziente impara le tecniche di regolazione dell’arousal, sulle quali è invitato a esercitarsi anche a casa, e ad applicare le risorse (da quelle fisiche a quelle interpersonali a quelle spirituali) che già gli sono proprie o a svilupparne di nuove. Seguirà il lavoro sulle memorie traumatiche secondo la cornice prima descritta, cioè con la prescrizione di restare nella finestra di tolleranza e utilizzare le risorse per ampliarla. La terza fase infine è più orientata all’integrazione di quanto acquisito e all’utilizzo nelle relazioni interpersonali.
Quelle che vedremo ora sono alcune delle possibilità di coniugare tecniche sensomotorie alla strategia del modello cognitivo-evoluzionista.
L’atteggiamento verso gli aspetti emotivi
Fin dalle prime sedute, il terapeuta cognitivo-evoluzionista utilizza tra i suoi interventi la psicoeducazione relativa alle emozioni: le nomina, le collega alle sensazioni fisiche, ne riconosce il significato di lettura dell’assetto interpersonale del momento, le collega all’azione coordinata dal sistema motivazionale interpersonale attivo. L’intervento di validazione e di informazione è continuo nel corso del dialogo terapeutico, e ha ovviamente un ruolo particolare quando si esaminano le auto-osservazioni del paziente.
Anche la PS dà una notevole enfasi alla psicoeducazione, che deve essere dettagliata e si può avvalere di schemi disegnati in seduta e di materiale fotocopiato da fornire al cliente. Per quanto riguarda questo stile di intervento, noi condividiamo il fatto di descrivere al paziente con un linguaggio accessibile anche il ruolo del sistema di difesa e il suo funzionamento, sottolineandone la funzione di protezione e di involontaria, automatica e fisiologica messa in atto. Parlare del sistema di difesa è utile non soltanto perché fornisce un significato a sensazioni fisiche disturbanti in quanto misconosciute, ma perché trasmette al paziente il concetto che anche l’immobilità e la passività, spesso all’origine di autocritiche e denigrazioni, hanno una componente attiva nel proteggere l’organismo e la sua sopravvivenza. Questa caratteristica del sistema di difesa permette anche al terapeuta di avere un’idea del paziente non come vittima inerme, ma come di una persona in grado di difendersi: è noto infatti che, anche se implicito, un atteggiamento del terapeuta che veda l’altro come solo sofferente rischia di vittimizzarlo ulteriormente e di ostacolarlo nella messa in atto delle sue risorse. Un altro aspetto degno di nota è il verificarsi nel corso del trattamento di un cambiamento nel paziente della modalità con cui percepisce il corpo. Come dicevamo, infatti, l’attenzione non giudicante e lo studio delle sensazioni fisiche fanno parte di un atteggiamento, che il cognitivismo evoluzionista condivide, di fiducia nella saggezza del corpo: nella PS il corpo è il protagonista di qualcosa che vuole accadere, cioè di un susseguirsi mutevole di sensazioni che si devono osservare senza interferire; nel caso in cui serva la regolazione di queste sensazioni la risorsa è comunque fornita dal corpo stesso. Anche nel cognitivismo evoluzionista le emozioni e i loro correlati somatici fanno parte di sistemi motivazionali dal valore evolutivo, mentre uno degli obiettivi del trattamento è la regolazione dell’intensità emotiva e la scelta cosciente di privilegiare un sistema motivazionale in contesti in cui questo sia più opportuno. In un nostro caso, è stato utile leggere in chiave di sistema di difesa la sensazione di mancanza di respiro che per la paziente era un sintomo precursore di un danno cardiaco, sensazione che viveva del tutto avulsa da un contesto interpersonale. Ridefinire il respiro “bloccato” come uno dei segni della predisposizione all’attacco in momenti percepiti come pericolosi, ha promosso il cambiamento dell’immagine che la paziente aveva di sé da vulnerabile e inerme a quella di persona con la capacità di difendersi. Dare questa lettura alla sensazione è stato utile in un momento iniziale della terapia in cui non era consigliabile affrontarne le radici traumatiche, e ha permesso in seguito di capire i contesti interpersonali in cui in realtà si verificava. Per raggiungere questa progressiva complessità sono state utilizzate all’inizio quelle che la PS chiama domande e direttive di mindfulness: cioè lo studio condotto con atteggiamento curioso e non giudicante della natura e della mutevolezza della sensazione, separandola dalla componente emotiva che in questo caso era l’aspetto che più spaventava la paziente. Quindi, senza nominare la paura (bastava questo termine a impaurire la paziente), è stato possibile integrare la sensazione fisica in un emozione e in seguito contestualizzare quest’ultima, diventando per così dire esperti della sensazione. Con le direttive di mindfulness il terapeuta invita il paziente a “restare” sulla sensazione e a sentire che cosa accade, mentre con le domande di mindfulness lo aiuta a esplorane le variazioni (“Fermiamoci su questa sensazione di costrizione al torace. Che succede adesso?”). E’ possibile vedere in questo esercizio una sorta di allenamento metacognitivo, perché, osservando e descrivendo alcuni aspetti di sé come se fossero un oggetto, il paziente in realtà utilizza il piano rappresentativo, con il duplice risultato di non sentirsi più “dirottato” da una forza emotiva estranea e di recuperare la capacità di non identificarsi completamente con i contenuti del suo mondo interno.
Riacquistare la collaborazione
Nella relazione terapeutica, osservare un comportamento ostile del paziente studiandone gli aspetti nella fisicità ha due vantaggi: permette di focalizzare l’attenzione sullo scopo difensivo prima di accedere al bisogno di attaccamento sottostante (un intervento sul bisogno di conforto in un momento di ostilità di solito non viene condiviso dal paziente), e come dicevamo, portare l’attenzione congiunta alle sensazioni corporee mitiga l’intensità emotiva e attiva il sistema cooperativo (Liotti e Monticelli, 2008). La PS utilizza il modello di Van der Hart della dissociazione strutturale dell’identità (Van der Hart, Nijenhuis e Steele, 2006) che prevede che gli aspetti emotivi della personalità possano essere divisi in ulteriori componenti; ci sarà quindi una parte emotiva deputata all’attacco, un’altra alla fuga, una alla sottomissione, una che si immobilizzerà, una che sarà in grado di chiedere aiuto. Invece di un riattivarsi unitario del sistema di difesa, il terapeuta potrà dover fare i conti con aspetti contraddittori del paziente, come ad esempio una richiesta urgente di incontrarsi, seguita però da un inizio di seduta non collaborativo e francamente ostile. Seguendo in parte l’ipotesi neo-dissociazionista (Van der Hart e Dorahy, 2009), in questo caso potrebbe essere utile esprimersi in termini di compresenza di diversi atteggiamenti difensivi, con un aspetto che spinge il paziente ad attaccare perché si sente in pericolo, e un altro che invece cerca il conforto del terapeuta. Il termine compresenza è preferibile a quello di conflittualità tra due esigenze, perché ha il vantaggio di promuovere l’integrazione tra componenti emotive che sembrano incompatibili. “Mi sembra che ci sia una parte di Lei che attacca per sfuggire ad una situazione di pericolo e un’altra che cerca il mio aiuto attraverso il nostro incontro” può essere l’inizio dell’invito da parte del terapeuta a soffermarsi sugli aspetti prevalentemente somatici dell’esperienza in atto, con l’obiettivo esplicitato di riportare l’attivazione nella finestra di tolleranza.
Oltre che essere oggetto di aggressività, il terapeuta può anche essere investito di aspettative salvifiche, che mal si accordano con l’atteggiamento collaborativo che Herman (1992) consiglia come condizione al trattamento. Tipico di questi casi è quello che può accadere quando l’esperienza traumatica è solo sospettata o non è sintetizzabile in situazioni definite e in immagini precise: il paziente può descrivere episodi della cui veridicità non è sicuro, o sui quali viene smentito dai familiari; oppure il contesto traumatico, pur certo, non può essere ricordato nei dettagli perché accaduto in una fase troppo precoce dello sviluppo. Per i ben noti effetti sull’ippocampo e quindi sul ricordo, l’evento traumatico scinde le componenti implicite da quelle dichiarative della memoria, e il ricordo può essere soggetto a confabulazione e distorsione (Liotti, Mollon e Miti, 2005). Il paziente può pertanto cercare di affidarsi completamente al terapeuta e alla sua capacità di giudicare la veridicità dei ricordi e se l’evento è accaduto. Anche qui, una possibile uscita da questa totale delega nella relazione prevede interventi in cui, pur ammettendo l’impossibilità di raggiungere la certezza senza prove, il terapeuta ammette con il paziente che siano accadute situazioni nel corso dello sviluppo il cui significato e le cui possibili influenze vale la pena esplorare (Courtois e Ford, 2009; Liotti, 2004). La realtà dell’aspetto emotivo del ricordo o della possibilità dell’evento si può affrontare analogamente a quanto la PS fa nella fase di elaborazione delle memorie traumatiche, cioè con l’avvicinarsi lento e progressivo alla scena traumatica. Si comincia cioè a studiare la risposta somatica partendo addirittura da quello che il paziente prova anche solo pensando all’ipotesi di affrontare il ricordo vero e proprio, quindi soffermandosi a lungo, per varie sedute, sui “margini” dell’accaduto, studiando il corpo all’inizio sui dettagli esterni, per lasciare per ultimi, solo quando il paziente è in grado di tollerarli, gli aspetti più drammatici. In analogia con questo tipo di lento avvicinamento, in assenza di immagini definite o se esiste nel paziente soltanto una sorta di certezza emotiva che qualcosa sia accaduto, il terapeuta potrà usare esplorazioni congiunte introdotte da frasi di questo tipo “mentre parliamo della possibilità che Le sia accaduto questo, facciamo un esperimento. Notiamo che cosa succede al Suo corpo…”.
Conclusioni
Acquisire nuove tecniche spesso ha un effetto indiretto sull’andamento di una psicoterapia, non soltanto per il valore intrinseco del nuovo strumento tra le conoscenze del terapeuta, ma per il cambiamento nella mente di chi le acquisisce. Nell’ottica da noi descritta, le procedure tratte dalla PS, che ovviamente non è unica nell’occuparsi del cambiamento attraverso il corpo, sono utilizzate all’interno di una strategia definita, quella cognitivo evoluzionista, che prevede una costante attenzione agli effetti della disorganizzazione dell’attaccamento in particolar modo nella relazione terapeutica (Liotti e Farina, 2011; Liotti e Monticelli, 2008; ). Da qui l’enfasi posta sull’atteggiamento collaborativo e sulla metacognizione, aspetti che sono nello stesso tempo obiettivi da raggiungere e condizione necessaria del trattamento. Avvicinarsi al corpo secondo le tecniche di cui abbiamo parlato, permette al paziente di uscire dal dirottamento somatico da parte del sistema di difesa riacquisendo la padronanza su di sé, e facilita nel terapeuta un cambiamento implicito della visione che ha in quel momento di sé e dell’altro. Ci sembra che la fiducia nelle soluzioni offerte dal corpo, l’atteggiamento non interferente che lascia il controllo a qualcosa di leggermente esterno addirittura al paziente stesso (il movimento che vuole accadere, la sensazione che vuole manifestarsi), l’attenzione che ruota e si espande intorno al tema somatico, siano tutti elementi che diminuiscono la paura di entrambi, paziente e terapeuta, nella relazione.
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